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mercoledì 23 febbraio 2011

TERRA UN BENE COMUNE DA PRESERVARE


Domenico Finiguerra
TERRA, UN BENE COMUNE DA PRESERVARE

DOMENICO FINIGUERRA
TERRA
UN BENE COMUNE
DA PRESERVARE
L'esperienza di Cassinetta di Lugagnano
alla ricerca dell'altra politica per un'altra Italia
scaricabile da
www.domenicofiniguerra.it
Il sito del sindaco di Cassinetta di Lugagnano

Domenico Finiguerra
TERRA, UN BENE COMUNE DA PRESERVARE
“Sappiamo che l’uomo bianco non comprende i nostri costumi.
Per lui una parte di terra è uguale ad un’altra, perché è come uno straniero che
irrompe furtivo nel cuore della notte e carpisce alla terra tutto quello che gli serve.
La terra non è suo fratello ma suo nemico e quando l’ha conquistata passa oltre.
Egli abbandona la tomba di suo padre dietro di sé e ciò non lo turba.
Rapina la terra ai suoi figli, e non si preoccupa.
La tomba di suo padre, il patrimonio dei suoi figli cadono nell’oblio.
Egli tratta sua madre, la terra, e suo fratello, il cielo, come cose da comprare,
sfruttare, vendere come si fa con le pecore o con le perline luccicanti.
La sua ingordigia divorerà la terra e lascerà dietro di sé solo deserto.”
Dal discorso di Capo Seattle all’Assemblea Tribale del 185


Prima parte
Il pianeta, l'Italia
La terra ci serve. Per vivere.
Per sostenere noi Italiani, con il nostro stile di vita, le nostre abitudini, le nostre passioni e i
nostri vizi, ci servirebbero almeno altre tre Italie.
Questo è il dato che emerge dal Living Planet Report del 2008 del


Ciò significa che stiamo come stiamo e viviamo come viviamo, perché qualcuno, mette a
nostra disposizione (volente o nolente) ciò che da noi comincia a scarseggiare: la terra.
Senza troppi giri di parole, noi italiani viviamo godendo di terra non italiana. E noi lombardi,
viviamo di terra non padana.



Per coloro che si inchinano al totem del liberismo o che pregano sull'altare della
competitività, non è eticamente riprovevole godere di benefici ed utilità ai danni di altri: è il
mercato. Chi è più forte, più bravo, più innovativo o magari soltanto più fortunato o più furbo
(e disonesto) vince.
Però, allargando lo sguardo e considerando tutto il pianeta, salta all'occhio qualcosa che
dovrebbe essere poco accettabile anche da parte di chi, pur essendo un liberista convinto,
ha a cuore il futuro dei propri figli.
Infatti, i dati del
F ci dicono che la domanda dell'umanità sulle risorse del pianeta supera
del 30% la capacità rigenerativa del pianeta stesso e che oltre tre terrestri su quattro, vivono
in nazioni (e l'Italia è tra esse) che sono debitrici ecologiche.
Il nostro stile di vita, i nostri consumi, la nostra voglia di vivere a 200 km all'ora, le gustose
patatine che ungono il telecomando del televisore di ultimissima generazione, non gravano


solo sulle spalle di qualcun altro in un altro luogo dello spazio (pianeta), ma anche sulle
spalle di altri esseri umani che vivranno in un altro luogo del tempo (futuro).
Il 31 dicembre 1986 ha visto l'alba il primo Earth Overshoot Day, giorno del sorpasso.
2
Il giorno dell'anno in cui l'uomo esaurisce le risorse annuali prodotte dal pianeta, in cui
incomincia a vivere intaccando il capitale, mangiando l'albero dopo averne divorato tutti i
frutti, compromettendo così le risorse dell'anno successivo.

Nel 2008, il sorpasso è avvenuto il 23 settembre...

Non è forse il caso di rallentare ed invertire la tendenza? La risposta è ovvia.
La pratica, però, è esattamente contraria.
Tutta la nostra vita, ad eccezione (forse) di aspetti sentimentali o morali, dipende dalle risorse
che il nostro pianeta è in grado di donarci. Se mangiamo e siamo vivi lo dobbiamo, in ultima



istanza, alla terra. A meno che non si creda che il cibo riposto sugli ordinati scaffali dei
supermercati ci sia arrivato con un astronave da un altro pianeta.
L'impronta ecologica misura l'area biologicamente produttiva di mare e di terra necessaria
per rigenerare le risorse consumate da una popolazione umana e per assorbire i rifiuti
corrispondenti. Semplificando molto, ci da un'indicazione circa la domanda dell'uomo sulle
risorse del globo terracqueo. Risorse che sono misurate sulla base della biocapacità di una
determinata area geografica, sia essa una provincia o l'intero pianeta.
Per rendere meglio l'idea, possono essere utili alcuni esempi che traducono l'impronta
ecologica (che si misura in ettari o in metri quadrati) rispetto a consumi e stili di vita
quotidiani: per ottenere 1 kg di carne bovina al giorno per un anno, occorrono 140 mq di
terra; produrre 1 kg di pane al giorno per un anno necessita di 10 mq di terra; spostarsi tutti i



giorni di 5 km comporta un fabbisogno annuale di 122 mq se pedaliamo, di 303 mq se
utilizziamo l'autobus, di oltre 1500 mq se siamo automobilisti.
E' evidente, pertanto, che la terra ci serve e che dovremmo tenercela stretta, preservarla e
aumentare, laddove possibile, la sua capacità di dare vita.
E invece, anziché togliere cemento, come consiglierebbe di fare il buon senso, continuiamo
ad aggiungerne.
Ed in Italia lo facciamo molto velocemente e voracemente, diminuendo così la biocapacità
del nostro paese, e aumentandone la dipendenza rispetto ad altre aree del pianeta. Ci stiamo
mangiando il futuro dei nostri figli. Allegramente...


Italia, Repubblica fondata sul cemento.
In Italia, il consumo annuo di cemento è passato dai 50 kg pro-capite del 1950 ai 400 kg pro-
capite del 2007. Una tendenza alla crescita sotto gli occhi di tutti e che non pare arrestarsi,

neanche in tempo di crisi.
Anzi, è passaggio cruciale di quasi tutti i comizi e di tutti i dibattiti televisivi, l'affermazione del
politico di turno che la crisi si batte con l'edilizia e con le grandi opere. La cazzuola e la
betoniera sono diventati il simbolo dello sviluppo, del progresso e della riscossa tutta italiana
e il consumo di territorio ha assunto dimensioni davvero molto inquietanti.
Seguendo un modello di sviluppo funzionale solo alla sommatoria di interessi singoli e per
nulla orientato da un disegno complessivo che miri all'innalzamento del livello di benessere
collettivo e alla salvaguardia del bene comune, il nostro Paese ha cavalcato negli ultimi




decenni un’urbanizzazione estesa, veloce e talvolta violenta.
Un vero e proprio cancro che avanza alla velocità di oltre 100 Kmq all'anno, 30 ettari al
giorno, 200 mq al minuto. Dal 1950 ad oggi, un'area grande quanto il Trentino Alto Adige e la
Campania è stata seppellita sotto il cemento.
Una goleada, spesso realizzata tra il tripudio dei tifosi: edilizia residenziale, artigianale e
industriale, megacentri commerciali, outlets, città satellite. Conditi dei relativi svincoli, raccordi
autostradali e rotonde.

Dinamiche molto complesse, che però sono il risultato di un fatto molto semplice: la
cementificazione non è stata mai considerata un’emergenza nazionale.

Nonostante i numeri allarmanti, gli eventi disastrosi che si ripetono ogni anno, le numerose e
quasi quotidiane denunce, che paiono essere l'eco dell'urlo lanciato negli anni '70 da





Domenico Finiguerra
TERRA, UN BENE COMUNE DA PRESERVARE
Antonio Cederna, il consumo di territorio non è percepito dalle grandi masse come un
problema, e non viene quasi mai rappresentato come tale da chi detiene i mezzi per farlo.
Però, all'occhio sensibile, l'Italia appare sempre più come una terra in svendita e sotto
assedio.
Cantieri che spuntano anche in posti impensabili, senza risparmiare parchi, zone protette e
sottoposte a vincoli, di natura ambientale, paesaggistica o architettonica.
Anzi, solitamente, più le aree sono pregiate, più sono appetibili per il mercato: si pensi che in
alcuni tratti della costa ligure si è incominciato a costruire nel mare!
Il dissesto idrogeologico è sempre più manifesto. Piangiamo tutti gli anni decine di sue
vittime.
Ma poi, passata la bufera, ritorniamo ad idolatrare le gru o le suggestive grandi opere.
Il patrimonio naturale ed artistico che ci viene invidiato dal resto del mondo è sempre più



compromesso. Si cominciano a notare alberghi chiusi e spiagge vuote, e gli stessi italiani,
sempre più volentieri, preferiscono cercare all'estero la meta per le loro vacanze.
L'agricoltura scivola costantemente verso l'impoverimento, sia economico che culturale, con
grandi e fertili territori che sono passati (consapevolmente o meno) da una sana vocazione
agricola, che però comporta pazienza e fatica, ad una ammaliante vocazione edilizia, che
rende ricchi subito e senza sudore.
I contadini, potenziali protagonisti di una rinascita produttiva per il paese, sempre più
difficilmente riescono a resistere di fronte alle offerte di speculatori senza scrupoli, per i quali
la terra è solo una preda, da addentare e divorare, senza alcun riguardo nei confronti della
sua rigenerazione ecologica.
Infine, le identità e le peculiarità di paesi e città sembrano destinate a perdersi in un unico
anonimo e piatto contenitore.


Agglomerati urbani del tutto simili e sovrapponibili tra loro (siano essi un quartiere di Roma, di
Bari, di Torino o di Napoli), che non restituiscono la storia del luogo ma che sono modelli
preconfezionati, buoni in Pianura Padana come nel Tavoliere delle Puglie.
Insediamenti residenziali fuori le mura, che svuotano i centri storici per indirizzare le vite delle
famiglie verso scialbe periferie, invitandoli a passeggiare in centri commerciali dai panorami
artificiali.
Sobborghi che azzerano le relazioni sociali tra le persone e che tutto favoriscono tranne che
la nascita e il mantenimento nel tempo di un senso di appartenenza ad una comunità.
Forse è giunto il momento di prendere atto con responsabilità che l’Italia è malata ed agire di
conseguenza. Sempre che non sia troppo tardi



Le buone intenzioni
L’urbanizzazione viene sempre motivata da buone intenzioni: “il centro commerciale porterà
posti di lavoro”, “con le mille villette avremo una scuola più grande e la piscina nuova”, “il
polo logistico creerà sviluppo”.
La spinta al consumo di territorio è venduta all'opinione pubblica come una necessità
dell’economia, che avrà certamente ricadute positive sul benessere dei cittadini.
Quindi, visto il tasso di cementificazione che abbiamo vissuto in Italia, dovremmo essere una
delle locomotive economiche d’Europa e uno dei paesi dove il livello di qualità della vita è più
alto.
E invece non è così. Perché?
Perché la pianificazione urbanistica, in Italia, è pressoché assente, e dove non vi sono regole
a garanzia dell’interesse collettivo, prevalgono gli interessi di pochi, di chi domina il mercato.








Ovviamente, le dichiarazioni e le motivazioni elencate a sostegno delle scelte urbanistiche
indicano sempre grandi e durature utilità per le comunità.
Ma la destinazione d’uso dei terreni, in realtà, non è stabilita a partire dalle necessità della
comunità che vive su quella stessa terra, bensì da un processo decisionale orientato dalla
forza contrattuale di chi detiene la proprietà dei terreni.
Un processo decisionale sovente infarcito dai proclami prodotti dalla convinzione che ha
ormai intossicato la quasi totalità della classe politica: non si può stare fermi, bisogna
crescere ed essere competitivi, l’economia non si può rallentare, bisogna ammodernare il
paese, occorre dare una risposta alle esigenze del mercato.
N
on è raro, poi, che il consumo di suolo diventi addirittura spreco: sono migliaia i capannoni
vuoti, milioni le case sfitte. Sprechi che non hanno nessun beneficio, né sull’occupazione né
sulla qualità della vita dei cittadini.







Ma che al contrario, e paradossalmente, producono brillanti effetti sul PIL, perché un
capannone dove mai nessuno lavorerà o una casa dove mai nessuno abiterà, aumentano
comunque il PIL della nazione.







Benessere o benavere?
Il benessere, dopo più di un ventennio di dominio incontrastato del superindividualismo, del
consumismo e dello slogan usa e getta (valido non solo per piatti e bicchieri di plastica, ma
anche per i rapporti umani e per l'ambiente), è ormai confuso con il ben-avere.
Le suggestioni pubblicitarie e i bisogni indotti ci fanno credere che possiamo stare meglio
solo acquistando e possedendo l'ultimo modello di cellulare o di autovettura.
Ma come spiega benissimo Francesco Gesualdi nel suo ultimo saggio, l'illusione dura poco
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e il ben-avere influenza per poco tempo il nostro stato d'animo.
Il concetto di benessere andrebbe ridefinito, da ciascuno di noi.
Come?
Misurando e acquistando consapevolezza della nostra impronta ecologica.




Cercando di fare in modo che il segno del nostro passaggio, del nostro camminare, non
pregiudichi nulla per chi verrà dopo di noi.
Cominciando a domandarsi in ogni occasione e per ciascuna decisione che compiamo,
pubblica o privata che essa sia, se davvero l'opzione preferita farà vivere meglio noi, i nostri
figli e i figli di chiunque altro in qualunque parte del mondo.

alla definizione di un piano regolatore alla scelta del mezzo di trasporto da impiegare per
raggiungere il proprio posto di lavoro, dall'acquisto della carta per gli uffici comunali a quello
di un telefonino, dalla preferenza per l'acqua del rubinetto piuttosto che per quella in bottiglia,
da ciascuna decisione deriva una conseguenza positiva o negativa per il benessere.
Per tutte le decisioni, dobbiamo domandarci se davvero crescerà il benessere.
Il benessere inteso come stare bene, che non è da confondersi con il PIL.
Un indicatore, il Prodotto Interno Lordo, del tutto inadatto a dirci quanto sta bene un paese.







Un numero virgola un numero che è una vera e propria farsa, venduto all'opinione pubblica
come un'entità quasi soprannaturale in grado di condizionare tutto.
Il dibattito politico in primis
Un indicatore che un democratico come Bob Kennedy, in un celebre discorso di 40 anni fa,
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metteva seriamente e appassionatamente in discussione.
Prodotto Interno Lordo che cresce se aumentano gli incidenti stradali sulle nostre nuove
autostrade ma che invece cresce poco se consumiamo un pasto a km zero, magari
osservando e preservando un bel paesaggio.
PIL che cresce se ci spostiamo in automobile (e che cresce tantissimo se abbiamo la
sfortuna di percorrere parecchi chilometri di coda) e che invece sta fermo se usiamo la
bicicletta o andiamo a piedi.








PIL che cresce se condiamo la pasta con passata industriale di pomodori coltivati in terreni
contaminati e che invece non si muove se la pastasciutta la gustiamo con i pomodorini
coltivati sul nostro balcone o nell'orto del nostro vicino.
PIL che cresce molto se facciamo una bella colata di cemento in un campo agricolo,
costruendo infrastrutture inutili, padiglioni fieristici o quartieri residenziali, e che invece si
muove appena se quello stesso campo è coltivato a ortaggi da pensionati per un gruppo
d'acquisto solidale o popolare.
Tornando ai democratici, dispiace dover constatare quanto i democrats di casa nostra, pur
proiettando spesso, in occasione di congressi e kermesse, le foto dei fratelli Kennedy,
insieme a quelle di Berlinguer e di Ghandi, siano abbagliati dal faro della rincorsa
ipersviluppista, della competitività e della crescita.







Un accecamento che impedisce la ricerca di un nuovo modello di società (con nuove
pratiche, nuove modalità organizzative, nuovi stili di vita, rispettosi dell'ambiente e dell'uomo,
traducendo e sviluppando i messaggi di austerità e sobrietà, lanciati proprio da alcuni dei
suddetti pensatori e politici) e che conduce ad una triste omologazione culturale, trattenendo
dirigenti politici, che un tempo “sognavano il sol dell'avvenir”, a discutere all'interno di un
modello di sviluppo disegnato dai veri attori protagonisti della commedia tragica in corso di
rappresentazione sul teatro mondiale e che sta mostrando il suo limite maggiore: non aver
tenuto in conto la limitatezza delle risorse.
Un accecamento che fa perdere l'opportunità di ritrovare una missione politica nella storia.
Peccato davvero.
Però speriamo, con l'aiuto di intellettuali e commentatori che cominciano a rendersi conto







che il mito della crescita infinita non è che un enorme paravento ideologico, di smuovere le

acque torbide di un dibattito politico monotono e monocorde.

   Michele Serra, L'amaca, da “la Repubblica” domenica 20 settembre 2009:  “Chi la dura la vince. Fino a pochissimi anni
fa mettere in dubbio la sacralità del Pil equivaleva a dimettersi dal dibattito politico. Cose da fricchettoni, da estremisti, da
frange utopiste. Oggi sono gli economisti (perlomeno: alcuni economisti) a negare che il Pil basti a valutare il benessere.
Repubblica di ieri presentava uno studio davvero rivoluzionario sulle regioni italiane. Lombardia e Veneto, ricchissime ma
inquinate e meno vivibili delle regioni del Centro, scendono in classifica: "inutile guadagnare più degli altri se poi ci si
ammala di asma bronchiale", scriveva giustamente Roberto Petrini a commento dello studio. Regioni meno ricche ma più
vivibili, come Marche Umbria e Toscana, salgono in graduatoria. Vent’anni di pensiero unico avevano quasi azzerato ogni
valutazione eccentrica dello stato delle cose. Perfino una ovvietà, che la quantità non necessariamente sia qualità, suonava
stravagante. Produrre di più, a qualunque costo, guadagnare di più, a qualunque costo, questa era la sola legge. I pochi che
hanno tenuto accesa la fiammella del pensiero critico oggi possono essere fieri di se stessi. I pazzi sembravano loro.
Pazzesco, oggi, sembra l’avere vissuto per produrre anziché produrre per vivere.”







Circoli viziosi!
Il giocatore che dovrebbe ricoprire un ruolo strategico nella partita urbanistica, ovvero il
Comune, non è in grado (perché non vuole, perché non può o perché gli viene impedito) di
esercitare uno dei compiti affidatigli dalla legge.
Il Testo Unico degli Enti Locali (art. 13) lo afferma chiaramente: spettano al comune tutte le
funzioni amministrative che riguardano l’assetto e l’utilizzo del territorio .
In realtà i comuni e i loro sindaci hanno abdicato, o sono stati destituiti, dal ruolo di gestori
del territorio.

Da almeno due decenni si assiste a politiche urbanistiche pensate e orientate non dalla
competente autorità comunale, nell’interesse generale della collettività, bensì dai grandi
operatori immobiliari che, ovviamente, perseguono i loro legittimi interessi privati. Come?

  Si fa però notare che se la nostra Costituzione all’Art. 41 dice che “L’iniziativa economica privata è libera”, aggiunge
anche che essa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”..







I comuni versano in condizioni economiche precarie e le leggi finanziarie, anno dopo anno, si
sono distinte per ingenti tagli agli enti locali. L'abolizione dell'ICI ha provocato un ulteriore
aggravamento della situazione. Entrate in costante diminuzione e uscite in costante aumento
producono bilanci in costante e forte squilibrio.
In assenza di una reale autonomia finanziaria, per un sindaco e la sua giunta, è sempre più
difficile far quadrare i conti, realizzare le opere pubbliche, garantire ai cittadini servizi
indispensabili e costruirsi il consenso presso gli elettori.
Se poi l’attività amministrativa è ispirata da manie di grandezza diventa ancora più difficile
trovare le risorse necessarie.
Alcuni sindaci si sentono obbligati a dover lasciare la loro impronta (di solito poco
ecologica...) e promettono oltre misura: palazzetti, piscine, centri civici, bowling, rotonde,
eventi e appuntamenti autoreferenziali.


Quindi, come riuscire a chiudere il bilancio in pareggio, realizzare opere pubbliche
(necessarie o meno) e organizzare eventi culturali e servizi alla persona (necessari o meno)?
Come finanziarie il bilancio comunale in perenne squilibrio e come costruire o consolidare il
proprio consenso? La risposta a questa domanda, purtroppo, è spesso molto semplice.
Grazie alla legge, che consente di applicare alla parte corrente dei bilanci gli oneri di
urbanizzazione e alla disponibilità di territorio in aree geografiche dove l’edilizia rappresenta
un valido investimento, si pratica la monetizzazione del territorio.
Una prassi che vede l'ente comunale come soggetto debole nei confronti dell'operatore
privato, il quale può mettere in gioco quelle risorse necessarie alla chiusura annuale dei
bilanci.
Una pratica ormai normalizzata e considerata l'unica via possibile da percorrere.
Un circolo vizioso che però, se non verrà interrotto, porterà, anzi sta già portando al collasso







urbanistico, dovuto all'espansione disordinata e senza limiti, intere aree del paese.
Un meccanismo deleterio, che permette di finanziare i servizi ai cittadini con l’edilizia e che di
fatto droga i bilanci comunali, finanziando spese correnti con entrate una tantum che però,
siccome il territorio non è infinito, prima o poi termineranno.
Per ora si preferisce guardare altrove e far finta di non vedere l'evidente assurdità di questa
situazione, lasciando accesi i riflettori solo sulla politica del Panem et Circenses.
S
i viziano e coccolano i cittadini, si ammicca loro, facendoli vivere in un sogno, evitando di
dire la verità: ovvero che la partita di calcio Nazionale Cantanti contro Vecchie Glorie
Comunali (arbitro: il Gabibbo), cui assistono nel bellissimo nuovo stadio comunale, non è
gratis.
Ma è pagata cara e salata: con il campo di grano, di riso o di barbabietole che stava proprio
dietro casa loro.







La monetizzazione del territorio come strumento per pareggiare i bilanci e consolidare
popolarità tra gli elettori, ha provocato la conurbazione tra comuni un tempo separati e la
formazione di città continue.

Non solo a Milano ma attorno a tutte le aree metropolitane d’Italia si sono formate immense
periferie urbane, quartieri dormitorio, luoghi senza storia né anima. Scenari ben diversi dai
sogni venduti  con l'adozione delle varianti urbanistiche.

Osservando dal satellite il nord dell'Italia, è facile notare la formazione della cosiddetta
megalopoli padana, da Cuneo a Trieste, una grande città diffusa.

Risultato del cosiddetto sprawl , “un modello di urbanizzazione disperso e a bassa densità
che aggredisce la bellezza dei paesaggi sfigurandoli e annullandone le caratteristiche
identitarie sotto una massa indifferenziata di elementi artificiali anonimi e spesso volgari.












Una megalopoli che è una delle regioni del pianeta più inquinate. Una megalopoli che è
frutto di migliaia di decisioni locali, compiute da sindaci, giunte e consigli comunali.
Perennemente sottoposti al ricatto degli oneri di urbanizzazione e costantemente tentati dal
seguire la via facile della svendita del territorio per la costruzione del proprio consenso
elettorale e delle proprie carriere politiche.







“L’avidità ha avvelenato i nostri cuori,
fatto precipitare il mondo nell’odio,
condotti a passo d’oca verso le cose più abiette.
Abbiamo i mezzi per spaziare,
ma ci siamo chiusi in noi stessi.
La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà,
la scienza ci ha trasformati in cinici,
l’abilità ci ha resi duri e cattivi.
Pensiamo troppo e sentiamo poco.
Più che macchine ci serve umanità,
più che abilità ci serve bontà e gentilezza.
Senza queste qualità la vita è vuota e violenta e tutto è perduto”.
Dal discorso all'Umanità di Charlie Chaplin, Il Grande Dittatore







Seconda parte
A Cassinetta di Lugagnano
Piccolo pezzo d'Altra Italia.
Cassinetta di Lugagnano è una comunità di quasi 1800 abitanti. Una perla incastonata sulle
sponde del Naviglio Grande, una ventina di chilometri a sud-ovest di Milano, nel mezzo
dell'ultimo polmone verde che abbraccia il capoluogo lombardo.
Un territorio pregiato, una mezza luna fertile per l'agricoltura, un paesaggio ambientale e
architettonico incantevole. Due parchi: il Parco Lombardo della Valle del Ticino (corridoio
ecologico che unisce le Alpi alla Pianura Padana, una delle sei Riserve Italiane della Biosfera
tutelate dall'Unesco) e il Parco Sud Milano (uno dei parchi agricoli più grandi d'Europa).







Un'area vasta e libera, da tempo soggetta ad attacchi speculativi, nella maggior parte dei
casi perfettamente riusciti, e di progetti infrastrutturali tanto inutili, quanto costosi e dannosi.
Una prateria che è considerata il posto migliore e naturale dove la grande metropoli possa
sfogare i sintomi della grave malattia che la affligge da decenni: l'incontinenza edilizia.
Quando nel 2002 cominciammo a scrivere il programma della Lista Civica Per Cassinetta  da
presentare alle elezioni comunali, giunti al capitolo urbanistica, non abbiamo avuto nessuna
esitazione: “Dobbiamo invertire la rotta, dobbiamo immaginare e praticare una politica
diversa”.
Politica che è risaputo, a livello locale, ruota tutt'intorno all'urbanistica, considerata la vera e
propria ciccia della politica.

Obiettivo, semplice e dichiarato: fermarci, far respirare la terra e lanciare un messaggio
nuovo ed inequivocabile, anche agli altri comuni.








Dare un segnale di speranza e dimostrare coi fatti che non è impossibile disegnare un piano
regolatore che non sia la traduzione delle aspettative del partito del cemento.

1
La nostra lista civica, con una chiara matrice di centrosinistra, vinse con il 50,1% dei voti.
In Lombardia, terra padana. Nello stesso comune dove Formigoni, Bossi e Berlusconi,
veleggiano ad ogni consultazione attorno al 65%.
Avevamo così l'opportunità di fare ciò che andava fatto: prendere atto per davvero che la
Terra d'Italia è malata e cominciare a curarla, contribuendo ad un tentativo collettivo di
mettere il tema del consumo di suolo in primo piano. Opportunità che non ci siamo lasciati
sfuggire.








Il sassolino di Cassinetta di Lugagnano.
Avevamo in mano un sassolino e l'abbiamo lanciato nello stagno. Un sassolino che
cascando nell'acqua ha detto: “Stop al Consumo di Territorio”.
1
2
Un obiettivo perseguito con un’azione concreta.
Anzi, forse l’unica azione concreta possibile per un comune: l’adozione di un Piano
Regolatore Generale che puntasse all'azzeramento del consumo di suolo, che non
prevedesse nuove aree di espansione urbanistica e che investisse tutto sul recupero del
patrimonio esistente, sulla promozione dell'agricoltura e sulla valorizzazione del paesaggio
ambientale e architettonico.

Nel febbraio 2007, dopo un lungo procedimento che ha visto la partecipazione della
cittadinanza, il consiglio comunale di Cassinetta di Lugagnano ha approvato definitivamente








il suo nuovo piano regolatore (PGT, Piano di Governo del Territorio), poi battezzato a
“Crescita Zero”. Un piano regolatore che salvaguarda, come previsto dal programma, uno dei
beni comuni che possono essere sottoposti alla tutela delle amministrazioni comunali: la
terra.
Tre mesi dopo, il 26 maggio 2007, i cittadini sono tornati alle urne per eleggere nuovamente il
sindaco e il consiglio comunale.
La nostra lista civica si è riproposta con lo stesso programma in campo urbanistico,
chiedendo agli elettori di confermare la scelta già operata in precedenza.
E la risposta è stata molto forte, con un consenso che è passato dal 50,1% al 62,1%.







Stop al consumo di territorio

Dire “Stop al consumo di territorio” e quindi adottare una pianificazione urbanistica che metta
veramente in discussione la prassi dominante, attira diffidenze. Ovviamente.
Si viene stigmatizzati, considerati anacronistici. Additati come contrari al progresso.
Talvolta   addirittura eversivi.
E forse quest'ultima affermazione è vera...
Perché in maniera quasi naturale, dall'azione a tutela della terra sortisce una contestazione
dell’intero modello di sviluppo oggi imperante nel (sul) pianeta.
Purtroppo, questo inevitabile attrito con con chi impera fa passare in secondo piano le
opportunità e i benefici, che la scelta di non consumare territorio potrebbe creare.
N
on solo per l'ambiente, ma anche per il mondo che ruota attorno al cosiddetto mattone.
Ad esempio, se invece di grandi e costosissime opere (capital intensive), si ipotizzassero







tante piccole opere pubbliche diffuse (labour intensive) tendenti a (1) riqualificare tutto il
patrimonio immobiliare esistente sul territorio nazionale, abbattendone i consumi energetici e
riconvertendoli alle energie pulite e rinnovabili, e (2) recuperare alla bellezza molti degli
angoli del bel paese deturpati da ecomostri o scempi di varia natura, ci sarebbe
probabilmente da lavorare, e per parecchi decenni, per tutte le imprese legate all’edilizia.
Inoltre, così facendo, forse invertiremmo la rotta che sta portando l'Italia, il più bel
transatlantico da turismo, verso uno di quei cimiteri navali dove vengono lasciati a marcire
vecchi gloriosi mercantili e arrugginite petroliere dismesse.
Eppure, come già si è detto, pianificare puntando tutto sul recupero di ciò che già esiste, se
da un lato può procurare simpatie da parte della sparpagliata e sparuta comunità
ambientalista, dall'altro innesca aspre e dure critiche, spesso inconfessabilmente interessate.
Se attraverso le scelte urbanistiche si promuovono l’agricoltura locale e la filiera corta, e







quindi non si acconsente all'apertura di grandi magazzini, si instaura un legame con le
piccole aziende agricole e con i piccoli negozi di vicinato, ma si entra in contrasto con il
sistema alimentare e commerciale basato sulla grande distribuzione.
Se in luogo delle classiche lottizzazioni si preferisce il recupero dell’esistente, ci si allea con i
piccoli artigiani locali, quelli in grado di recuperare una corte malandata o di restaurare un
soffitto affrescato, ma si scatena l’avversità degli imprenditori dell'immobile, esperti di
interventi fatti con il classico stampino, tutti uguali, buoni a Cuneo come a Sassari.
Se si salvaguardano parchi e boschi, si fanno più felici i bimbi (e non solo loro), ma si
rendono ancora più ostili coloro che pensano che i vincoli delle aree protette siano solo un
intralcio per le loro operazioni corsare.
Se con le scelte urbanistiche si contrastano le grandi opere, siano esse autostrade o linee ad
alta velocità, che rischiano di stravolgere per sempre la morfologia e l'equilibrio di un







territorio, si viene puntualmente indicati al pubblico ludibrio come “i soliti ambientalisti del
no”.
In definitiva, ipotizzare, e soprattutto praticare come abbiamo cercato di fare  a Cassinetta di
Lugagnano, una politica urbanistica e territoriale che metta in dubbio il principio della
crescita infinita, porta inevitabilmente a definire nuove coordinate e a cercare un nuovo
paradigma generale, un nuovo modello di sviluppo, in grado di (ri)orientare l'agire politico.







n modello alternativo e partecipato. Sobrietà, fantasia, fiscalità.
L'aver preso coscienza delle funeste conseguenze del circolo vizioso della monetizzazione
del territorio e del modo in cui, oltre ai danni al paesaggio, all'ambiente e all'agricoltura,
questo fenomeno inquina tutta la politica, ci ha obbligati a cercare e trovare altre strade, in
grado di interrompere il circolo vizioso stesso.
Un modello alternativo che, per quanto artigianale, oltre ad aver recato beneficio alla terra, ha
innescato il vecchio proverbio che dice “fare di necessità virtù”, mettendo in moto sobrietà e
austerità; dichiarando guerra alla pigrizia e al conformismo.
Un modello che senza la partecipazione, forse, non avrebbe dato i risultati sperati.
Attraverso assemblee pubbliche informative, confronti, questionari ed interviste, i cittadini
hanno acquistato la consapevolezza che il territorio, anche se in base al catasto o ai mappali
non è di loro proprietà, è comunque un bene che va salvaguardato e protetto e che a loro







spettava una parte importante della decisione.
La scelta di coinvolgere i cittadini, a partire dai più piccini, è stata fondamentale ed ha
rappresentato un grande valore aggiunto, sia per gli urbanisti incaricati che per gli
amministratori.
Spesso, dopo essere stati eletti, i politici si (rin)chiudono nelle loro stanze. Forse per paura di
rimettersi in discussione. Sottovalutando così i cittadini.
Al contrario, questi ultimi possono essere di gran conforto nelle decisioni importanti e sanno
consolidare la determinazione nel portare avanti le scelte compiute insieme, facendo da
contrappeso democratico e collettivo alle forze dei singoli portatori di interessi privati.
L’aver portato in piazza la discussione sul piano regolatore ha anche svolto una funzione di
rafforzamento della decisione, vincolando pubblicamente gli amministratori e rendendo un
po’ più difficoltoso, in futuro, un cambio di strategia. La partecipazione, per usare una







metafora, è stata una sorta di vaccinazione, necessaria a rendere immuni tutti gli
amministratori dal contagio della malattia del cemento. Speriamo per un lungo periodo...
N
on avere più la disponibilità degli oneri di urbanizzazione e dei contributi aggiuntivi derivanti
dalle grandi lottizzazioni, ha reso (e rende tuttora) arduo sia realizzare le opere e gli
investimenti necessari alla comunità, sia il mantenimento di standard qualitativi e quantitativi
nei servizi alla persona.
Il lavoro più critico non è stato quello di definire il Piano Regolatore. Quest’ultimo, al contrario,
non dovendo prevedere algoritmi e formule strane per consentire operazioni urbanistiche
particolari, è stato forse il passaggio più semplice dal punto di vista amministrativo. Tant'è
che spesso, quando ci viene richiesta la documentazione del nostro piano regolatore oppure
si domanda al nostro Comune di illustrarlo pubblicamente, sortisce nel nostro interlocutore
incuriosito una domanda: “è tutto qui?”








Si, è tutto qui. Fermare il consumo di suolo agricolo e la cementificazione non richiede
particolari preparazioni tecniche, ma una fortissima volontà politica.
La maggiore difficoltà, invece, è stata (ed è tuttora) far quadrare il bilancio.
Taglio delle spese nei settori non indispensabili, ricerca di altre e innovative fonti di
finanziamento, adozione di piccoli interventi che comportano con pochi sforzi grandi risultati.
Queste le linee guida che hanno orientato la politica finanziaria del comune.
N
essuno staff, né addetti stampa, informatori comunali redatti dagli amministratori. Ci si
muove con i mezzi pubblici o in bicicletta. L’auto blu del comune è una Panda Verde. Nessun
convegno a spese del comune. Assessori che tagliano il salame alla festa del paese.
Impegno costante nel copiare le buone prassi suggerite dall'Associazione Comuni Virtuosi.
Tramite la ESCO consortile, si punta sulla riduzione dei consumi energetici e si investe nelle








fonti rinnovabili, mettendo in campo interventi anche molto semplici che talvolta solo per
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3
pigrizia non vengono neanche presi in considerazione.
Per gli investimenti ritenuti indispensabili che non è possibile realizzare con contributi a fondo
perduto, di cui siamo sempre alla ricerca, si procede all'accensione di mutui con
conseguente ricaduta sulla fiscalità locale.
N
el caso più importante, come la nuova scuola dell’infanzia, il mutuo da un milione di euro è
stato coperto dall'aumento di un punto dell’ICI sulle seconde case, sui capannoni e sulle
attività produttive.
Una sorta di tassa di scopo, ove è stata resa evidente la destinazione del nuovo balzello.
Agli imprenditori, in sostanza, è stato detto: “in passato avete goduto dell’opportunità di
sviluppare le vostre aziende grazie all'utilizzo del territorio. Ora è giusto che restituiate alla




comunità di Cassinetta di Lugagnano, tramite un aggravio fiscale, una parte dei benefici
ottenuti”.
Facendo leva sulla qualità paesaggistica e ambientale del nostro piccolo comune, quasi tutte
le attività culturali sono poste a carico di sponsor o altri enti pubblici e privati.
Per cercare di pareggiare il bilancio si è ricorso, infine, anche alla fantasia, cercando di
cogliere tutte le opportunità, anche quelle più strane. Ad esempio, per far fruttare la forte
domanda di celebrare matrimoni civili a Cassinetta tutti gli amministratori si sono messi a
disposizione, anche in orari strani, nelle ville settecentesche, nei parchi comunali o in piazza,
persino a mezzanotte. Ma ad un costo maggiorato.
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Molto probabilmente, grazie alla politica di rigore finanziario condotta, ai risparmi e alle nuove
entrate reperite, se non si fosse optato per la crescita zero, continuando ad incamerare









ingenti somme in oneri di urbanizzazione, sarebbe stato possibile ridurre, e di molto, la
pressione fiscale sui cittadini e sulle imprese.
Invece, l’ICI sulla prima casa (finché c’era) è rimasta ferma al 6 ‰, l’addizionale comunale è
bloccata al 2%, i costi dei servizi a domanda individuale come la mensa scolastica o l'asilo
nido sono stati aumentati e l’ICI su seconde case e altri fabbricati è stata innalzata di un
punto. Senza nessun isterismo collettivo dovuto al contagio del virus giù le tasse!
Forse perché i cittadini, se adeguatamente informati, sanno discernere l'utile (la terra, il
benessere loro e dei loro figli) dal dilettevole (gli outlets, le cittadelle del commercio e le loro
rotonde scintillanti).








La politica per il bene di tutti
Il Piano Regolatore di Cassinetta di Lugagnano e il suo processo di formazione,  è stata una
specie di cura.
Ci ha obbligato a rivalutare tutte le azioni amministrative e a rimettere nel giusto ordine di
priorità le spese che il comune deve sostenere.
Ha affermato il principio che la terra non è una risorse infinita, non è a disposizione nostra e
del bilancio comunale, ma è un bene prezioso da noi gestito temporaneamente, che va
curato a favore delle prossime generazioni affinché ne possano godere i frutti.
Ripensare l'urbanistica, restituendo dignità alla pianificazione territoriale e rimettendola nelle
mani del soggetto pubblico, ha comportato un radicale cambio di prospettiva che ha
modificato completamente il quadro entro il quale si assumono le decisioni che riguardano il
destino del territorio, siano esse scelte urbanistiche o relative alle infrastrutture.








L’attenzione, il rispetto e l’oculatezza nella gestione del territorio ha scatenato un’influenza a
3
6
0°, in tutte le sfere della politica amministrativa, restituendo lo smalto all'impegno nelle
istituzioni. 
Ci ha fatto incontrare un nuovo e diverso modo di fare politica.


Ha condizionato e migliorato la politica stessa.
L'ha resa più bella, più affascinante, più emozionante.
Perché le ha fatto ritrovare la prima definizione datale da Aristotele, per il quale la politica è
l'amministrazione della "polis", la comunità, per il bene di tutti.
Una bella politica apprezzata dai cittadini che, come già detto, pochi mesi dopo
l'approvazione del piano regolatore a Crescita Zero, ci hanno riconfermato alla guida di
Cassinetta di Lugagnano.
 









Un'esperienza meravigliosa, resa possibile grazie ad un gruppo di persone straordinarie, che
hanno rinunciato a molta parte del loro tempo per dedicarsi al bene della comunità: la Lista
Civica Per Cassinetta. Amici e compagni che nonostante la fatica e i sacrifici che ciò


comporta, hanno deciso di “cambiare il paese e non di cambiare paese”











Dall'intervento di Domenico Finiguerra all'Accademia dei Colloqui di Dobbiaco,
 26 settembre 2009
“Negli ultimi mesi ho avuto diverse occasioni di partecipare a convegni e dibattiti. E via via, un
dubbio si è trasformato in certezza.
Se io e la mia lista civica non ci fossimo presentati alle elezioni amministrative del 2002,
saremmo rimasti un buon gruppo di pressione esterno, ma nulla di più. Avremmo cercato di
spingere l’amministrazione a non consumare troppo territorio, sperando nel buon senso, ma
nulla di più.
Se non ci fossimo presentati alle elezioni, mettendoci in gioco, non avremmo potuto realizzare la
nostra piccola esperienza e oggi non sarei qui a parlarvene.
Cosa voglio dire? Se tutti quelli che si impegnano e si sforzano per mettere in discussione il
modello di sviluppo vigente e dominante, non organizzano la loro irruzione pacifica nella
politica;








se tutte le realtà, i movimenti, le associazioni, gli studiosi, gli amministratori, che contestano la
società della crescita, del consumismo, del saccheggio del territorio e dei beni comuni, e che
affondano i propri convincimenti e le proprie azioni nella consapevolezza che bisogna invertire
la rotta, non passano dalla teoria alla pratica;
se tutte questi soggetti non escono dalle sale per convegni e dai dibattiti accademici, per
dedicarsi alla costruzione di una vera alternativa politica e passando all’azione concreta,
diventando nuova classe dirigente, per compiere direttamente le scelte necessarie al salvare il
paese e il pianeta;
se non si compie questo salto di livello verso la politica attiva, saremo destinati ad osservare
impotenti l’affondamento del Titanic.
Dobbiamo avere il coraggio non solo di strappare il microfono dalle mani di chi cerca di
distrarre abilmente i passeggeri ignari della nave, ma anche di prendere il comando della nave
stessa per poter salvare tutti.
P
erché su questa nave non ci siamo solo noi, ma anche i nostri figli e i figli dei nostri figli.”








Domenico Finiguerra nasce a Milano il 3 settembre 1971.
Dal 2002 è il Sindaco di Cassinetta di Lugagnano alla guida della lista civica Per
Cassinetta.
E' componente del direttivo dell'Assoc i az i one   Rete   Nuovo   Mun i c i p i o e dal
settembre 2009 del comitato direttivo dell'associazione Comun i  V i rtuos i.
E' promotore, insieme a molti altri, della campagna e del movimento nazionale
Stop   a l  Consumo   d i  Terr i tor i o che il 24 gennaio 2009 ha preso avvio da
Cassinetta di Lugagnano.
H
a contribuito a “    _ _ ___ _ __      __ ___ __ __ _ _ ___ _ ____ _ ____ 
 , u _________________________
deciso di cambiare il paese e non di cambiare paese, di Marco Boschini e Michele
Dotti, edito da EMI.
www.domenicofiniguerra.it
il Blog del sindaco di Cassinetta di Lugagnano

   





Domenico Finiguerra
TERRA, UN BENE COMUNE DA PRESERVARE
Il Comune   d i  Cass i netta   d i  Lugagnano (MI) è un comune del Parco del Ticino, riserva della Biosfera
U
nesco.
A
derisce alla Rete dei Comuni Solidali (RECOSOL) e a Mayor for Peace.
H
a vinto il Premio Comuni a 5 Stelle edizione 2008 organizzato dall'Associazione Comuni Virtuosi,
nella categoria “Gestione del Territorio”.
Il 19 aprile 2009 ha ricevuto presso il Presidio NO TAV di Borgone di Susa, il Premio intitolato a
B
runo Carli dal Valsusa Filmfest e riservato ai territori resistenti.
Il 31 maggio 2009, Report, la trasmissione di Milena Gabanelli, ne ha raccontato l'esperienza
nell'ambito della puntata curata da Michele Buono “Il male comune”.










L’Italia è un paese meraviglioso. Ricco di storia, arte, cultura, gusto, paesaggio.
Ma ha una malattia molto grave: il consumo di territorio.
Un cancro che avanza ogni giorno alla velocità di oltre 1
 Kmq all'anno, 30 ettari al giorno, 2
 mq al minuto.
Dal 1950 ad oggi, un'area grande quanto il Trentino Alto Adige e la Campania è stata seppellita sotto il cemento.
Il limite di non ritorno, superato il quale l’ecosistema Italia non sarà più in grado di autoriprodursi è sempre più vicino.
Ma nessuno se ne cura.
F
ertili pianure agricole, romantiche coste marine, affascinanti pendenze montane e armoniose curve collinari, sono
quotidianamente sottoposte alla minaccia, all’attacco e all’invasione di betoniere, trivelle, ruspe e mostri di asfalto.
N
on vi è angolo d’Italia in cui non vi sia almeno un progetto a base di gettate di cemento: piani urbanistici e speculazioni
edilizie, residenziali e industriali; insediamenti commerciali e logistici; grandi opere autostradali e ferroviarie; porti e
aeroporti, turistici, civili e militari.
N
on si può andare avanti così!
La natura, la terra, l’acqua non sono risorse infinite. Il paese è al dissesto idrogeologico, il patrimonio paesaggistico e artistico
rischia di essere irreversibilmente compromesso, l’agricoltura scivola verso un impoverimento senza ritorno, le identità
culturali e le peculiarità di ciascun territorio e di ogni città, sembrano destinate a confluire in un unico, uniforme e grigio
contenitore indistinto.
La Terra d’Italia che ci accingiamo a consegnare alle prossime generazioni è malata. Curiamola!
STOP AL CONSUMO DI TERRITORIO
Movimento di opinione per la difesa del diritto al territorio non cementificato



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