CASA E CONSUMO DI SUOLO
a cura di Mario De Gaspari e Federico Ottolenghi
Cosa succede in città
Ci sono città italiane sfigurate dall’uso che ne è stato fatto e ci sono città che si stanno trasformando senza che si sappia in quale direzione. La cartolarizzazione rischia di diventare la metafora delle nostre città, sminuzzate, impacchettate in prodotti finanziari incomprensibili e infine spedite nessuno sa dove. Avviene così che si perda il segno della responsabilità per il patrimonio culturale, per l’ambiente, per l’avvenire, per la comunità. Il paradosso è che un territorio sempre più caricato, di manufatti e di funzioni, rischia di apparire desertificato. Di senso, di solidarietà, di futuro.
Spesso i piani urbanistici approvati dai comuni, più che strumenti di governo sono meri dispositivi finanziari che trattano i suoli non come patrimonio della collettività, ma come asset buoni per la speculazione. Non cogliere questo punto significa non riuscire a impostare neppure una efficace opposizione: capace cioè, se non di impedire l’approvazione di questi piani, di svelarne il meccanismo e di presentare un approccio realmente fecondo per una proposta. Sembra sempre più che il fine delle pubbliche amministrazioni sia la pura e semplice valorizzazione finanziaria dei beni comuni. E così la logica del governo locale è spesso tutta interna e coerente alla dinamica finanziaria-speculativa. Non fa nemmeno i conti con il mercato delle case perché il mercato stesso è in controtendenza rispetto agli obbiettivi del consumo di suolo e qualsiasi onesto riferimento ad esso comporterebbe scelte radicalmente differenti: il suolo si esaurisce, di case ce ne sono già troppe, il terziario è “avanzato” da tempo, il numero dei centri commerciali ha già superato di molto le esigenze del sistema distribuito, le cave di ghiaia e di sabbia diventano spesso discariche abusive.
È possibile che non ci sia nemmeno, almeno per qualche anno, l’auspicata nuova “colata di cemento”, quella che dovrebbe rimettere in moto l’economia, perché il cemento, il ferro e tutte le materie prime costano care. È più probabile che ci saranno molti inizi lavori, scavi e sbancamenti, tra l’altro le fasi dove è particolarmente pressante la presenza della criminalità organizzata. Ci sono già troppe operazioni immobiliari in sofferenza o incagliate. Anche il linguaggio dell’edilizia ormai subisce gli influssi della terminologia finanziaria in tempo in crisi e così i cantieri soffrono o si incagliano, come i crediti che le banche non riescono più a riscuotere. Forse dunque non ci sarà la “colata”, non subito almeno, perché è più conveniente passare di mano in mano i titoli di proprietà e valorizzarli più volte contando sulla compromissione del sistema bancario e sull’irresponsabilità di una politica che non mette limiti, né al consumo di suolo, né ai prezzi delle case, né al saccheggio dell’ambiente.
Inevitabilmente il consumo di suolo, divorato dalla rendita e dalla finanziarizzazione della città, si riflette nei rapporti sociali.
In molte città si apriranno un sacco di cantieri che avranno l’unico scopo di testimoniare l’avvio dell’edificazione e ci saranno numerosi scavi a cielo aperto che, dimostrando un ipotetico inizio lavori, dovrebbero facilitare i passaggi di mano dei terreni e delle relative cubature. Non c’è una ragione per cui molte operazioni già approvate siano incagliate per via del mercato e quelle nuove debbano essere fluide: le case continuano ad essere troppe e i prezzi troppo alti per i tanti che non se le possono permettere.
Nelle grandi città, governate secondo i principi di una sfrenata deregulation, si genererà un vorticoso giro di trattative nel mondo delle immobiliari per favorire operazioni sempre più grandi e redditizie e contemporaneamente aumentare la capacità contrattuale dei proprietari dei suoli verso la pubblica amministrazione. Il comune, già debole nelle risorse, crea così le premesse per la propria definitiva subalternità. E così gli uomini della società civile, dopo essere stati invitati ad un’ipocrita partecipazione, saranno marginalizzati nel ruolo di mute comparse.
La finanziarizzazione della città promette di risolvere il problema degli alloggi e per contro il problema continua ad aggravarsi: aumentano i diritti edificatori, aumentano le costruzioni, ma soprattutto aumentano i prezzi delle case, sfuggendo definitivamente al libero gioco di domanda e offerta. L’offerta non riesce a calmierare i prezzi, perché nessuno è disposto ad ammettere lo stato di crisi: le banche non riconoscono le perdite, i crediti, ormai inesigibili, si trasformano in titoli di proprietà e si creano così le premesse per una crisi ancora più violenta.
Nemmeno l’edilizia convenzionata, sempre prevista nei programmi urbanistici, ha niente a che vedere con una vera politica sociale della casa: ha semplicemente lo scopo di stabilire un valore di mercato “minimo” per le case stesse. Fa da calmiere al contrario: se quello è il costo minimo, i prezzi in edilizia libera possono solo salire. È così che a volte succede, soprattutto nei grandi cantieri, che si realizzi solo la parte convenzionata, mentre la cubatura libera viene messa sul mercato nella speranza di trovare presto o tardi un operatore capace di fare da cassa di compensazione. Le case convenzionate, messe in vendita a prezzi contenuti, sono economiche solo perché confrontate con i prezzi di case ancora più costose, che forse non si faranno mai perché invendibili.
Così, soprattutto nelle grandi città, è più che probabile che si acceleri la tendenza alla concentrazione monopolistica delle aree, con qualcuno più legato al sistema bancario nella parte dell’asso pigliatutto: infatti i diritti edificatori, compresi quelli sulle aree verdi, sono essi stessi cedibili e una maggior concentrazione garantisce maggiore forza contrattuale. Per di più le banche che stanno alle spalle dei grandi operatori immobiliari sono sempre le stesse, spesso coinvolte tutte assieme nella regia di imprese edificatorie sempre più simili agli episodi insensati di euforia finanziaria di tre o quattro secoli fa.
Che fare?
I titoli di proprietà immobiliare si trovano nei grandi portafogli finanziari generalmente sopravvalutati, perché in questo modo possono favorire maggior accesso al credito ed essere meglio scambiati sui mercati regolati. Ci sono solo due strade per uscirne: o si accetta la realtà, si deprezzano i valori delle ipoteche (dove ci sono, perché i finanziamenti immobiliari spesso non sono assicurati) e le banche ammettono le perdite. È questa la tesi che sostiene Stiglitz negli Stati Uniti e che in Italia è stata accompagnata dalla proposta di creazione di una bad bank, cioè di un istituto-discarica in cui far confluire i cosiddetti titoli tossici, allo scopo di ripulire i bilanci delle banche stesse; oppure si fa finta di nulla e si dà la scalata al cielo. In questo caso si continua col rialzo fino a che una nuova bolla sarà inevitabile: allora il problema sarà tutto, o principalmente, italiano, e coinvolgerà, in maniera più drammatica di oggi, il territorio, l’ambiente, i bilanci delle città e l’economia nel suo insieme. Allora, se non avremo fatto nulla, ci troveremo davvero soli, perché nel frattempo gli altri paesi stanno affrontando il problema con più realismo o comunque hanno invertito la tendenza. La crisi è infatti generale, ma solo noi stiamo caparbiamente accumulando nuovi e più gravi fattori di crisi: una normativa generata dal periodo del boom, 2004/2005, che vogliamo potenziare invece di ridimensionare, piani urbani insensati per le grandi città e una legislazione d’emergenza (piani casa, incentivi, premialità varie agli speculatori) che aggrava distorsioni già oggi insopportabili.
C’è bisogno di mettere insieme tre livelli, tre piani di riflessione e di azione che normalmente non si incontrano: l’urbanistica e le politiche urbane, i processi e le politiche economico-finaziarie, la politica generale.
Invertire la sciagurata tendenza in atto oggi significa fare due cose:
- agire sul fronte del territorio e uscire dalla spirale perversa che induce a finanziare le casse pubbliche mercificando i suoli
- agire sul fronte economico, riconoscendo il danno che questa spirale arreca all’economia reale, in quanto sposta i capitali dalla produzione alla rendita, immobilizza i capitali e compromette il benessere di larghe fasce di popolazione, e soprattutto il futuro dei giovani, spesso irrimediabilmente vincolato alla remunerazione di un mutuo irrealistico e sproporzionato.
Su un piano locale occorre:
- Individuare strumenti reali di informazione-trasparenza-partecipazione.
- Considerare attentamente il vantaggio collettivo derivante dall’uso del suolo (ad esempio a Monaco il 30% del plus valore creato finisce nelle casse del comune e a Milano solo l’8%).
- Fare in modo che il comune sia dotato dei necessari strumenti di analisi.
- Far sì che il comune sia dotato dei necessari strumenti operativi e di controllo, ad esempio in materia di fideiussioni e di decadenza dei diritti edificatori.
- Consentire produzione edilizia solo a fronte di una comprovata richiesta del mercato, cioè evitare, per quanto possibile, che si crei moneta fittizia attraverso l’uso dei suoli.
- Scoraggiare l’edilizia residenziale per la vendita e favorire la realizzazione di alloggi destinati all’affitto, soprattutto per favorire l’accesso alla prima casa e la mobilità sociale e territoriale delle giovani generazioni.
- Separare banche e gestione immobiliare come avvenne negli anni trenta per le banche e l’industria (la “mostruosa fratellanza siamese”, come la definì Raffaele Mattioli).
- Ripristinare una finanza locale autonoma e sostenibile che non metta i comuni in condizione di fare qualunque cosa pur di raccattare delle entrate.
- Reintrodurre il divieto di uso degli oneri di urbanizzazione per la gestione corrente dei bilanci.
- Creare un’Authority nazionale con compiti di vigilanza in materia di uso del suolo sia riguardo agli aspetti ambientali che riguardo alle ricadute sull’economia.
1 commento:
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